All’ingresso mi dicono che Guido Fantino è in cantina, e m’indicano la strada, ma io già la conosco. Ero stato qui un paio d’anni fa, e mi era piaciuta questa azienda innovativa, condotta da due soci, Claudio Conterno e Guido Fantino. È una cosa insolita, la doppia conduzione; quello del produttore di vino è un lavoro individuale, è raro vedere vignaioli dividersi le responsabilità. Claudio, due anni fa, mi aveva detto: « Io e Guido siamo differenti, in tutto. Ma se riesci a cogliere qualcosa dell’altro, dopo si è molto più completi». Conterno e Fantino fanno coppia dal 1982, più di trent’anni. Ci sono matrimoni durati molto meno.
Guido è in cima a una scala, che scruta, con una di quelle torce elettriche che hanno i meccanici, l’interno di una vasca. Un cenno di saluto, mi chiede di avere pazienza, sono arrivato in un momento delicato. Lo osservo mentre attacca e stacca i lunghi tubi flessibili rossi, mentre sale e scende dalle vasche, ogni volta fermandosi a guardare con attenzione il mosto. Incuriosito, provo a salire anch’io: un magma rosso vivo, bollicine scoppiettanti, bucce. Cosa ci legga lui, non so.
«Qui siamo al Bricco Bastia, sopra Monforte. È abbastanza in alto, più di cinquecento metri, per cui, intorno la cantina abbiamo preferito piantare Dolcetto e Chardonnay. Abbiamo venticinque ettari di vigneti, che per le Langhe è una superficie consistente, e i vigneti di Nebbiolo sono alla Ginestra; vanno piantati tra i 200 e i 450 metri d’altezza, e non sopportano una cattiva esposizione. A poche centinaia di metri di distanza, abbiamo il Sorì Ginestra, il Mosconi e il Vigna del Gris. Vinifichiamo le loro uve separatamente perché, nonostante siano molto vicini, danno vini con caratteristiche molto diverse.
Può capitare di trovare sulle etichette il termine sorì ; è un termine che viene usato per indicare i vigneti in pieno sole, esposti a sud, e così è il vigneto di Ginestra, che presenta un suolo molto calcareo. La vigna del Gris è più sabbiosa, ed esposta a sud-est, mentre il Mosconi è un sud-ovest, con terreno calcareo, “grasso”. È il bello di questo territorio, qui l’uomo conta fino a un certo punto. Ha maggiore importanza dov’è collocata la tua vigna. Puoi fare tutte le operazioni, in vigna e in cantina, perfettamente identiche, ma saranno il suolo e il microclima a fare il tuo vino. Di vini rossi, produciamo anche Dolcetto, Barbera e Langhe Nebbiolo; quest’ultimo in terreni che sono sempre a Monforte, ma oltre la linea che delimita la zona del Barolo. Questi vigneti, in ottima esposizione, sono appena fuori dal confine, a 200 m, in località Ornati. Facciamo un Langhe con fermentazione leggermente più corta, ci serve meno tannino. Usciamo un anno dopo la vendemmia, con un passaggio in legno di 10 mesi. I nostri bianchi sono due Chardonnay; uno fresco, che fa solo acciaio, da servire come aperitivo, e uno più importante, che passa quindici mesi di mesi in barrique. È un vino da pasto, longevo, dura anche più di 10 anni.
Il Nebbiolo, rispetto a Dolcetto e Barbera, ha una fermentazione più lunga. Devi estrarre il massimo, devi tirare fuori tutto quello che ti può dare la buccia. Perché la polpa ti dà l’alcol, ma la vera struttura del vino te la dà la buccia, è lì che ci sono tutti i componenti essenziali per un grande vino. Una volta le fermentazioni non erano così efficaci, non riuscivi a prendere tutto dalla buccia. Oggi, con il controllo della temperatura e il movimento meccanico delle bucce, riusciamo a estrarre il cento per cento delle sostanze. Una volta, le bucce che davamo alle distillerie erano viola. Oggi sono di color arancio, segno che si è estratto tutto il possibile.
La fermentazione dura in base all’annata. Migliore è l’annata, più si allungano i tempi di estrazione. Con bucce sane, “importanti”, si fanno dieci-dodici giorni di macerazione. Non c’è una formula esatta, decidi come operare quando ti arriva l’uva. La fai in base all’andamento climatico dell’annata, alla maturazione dell’uva, alla resistenza delle bucce. Quando conosci tutti i parametri, puoi decidere come fermentare. Ci sono produttori che la fanno di venti giorni, anche trenta; ogni azienda ha le sue metodologie. Noi riusciamo ad abbreviare i tempi grazie al movimento continuo delle pale, che consente un’estrazione maggiore in meno giorni. L’importante che escano vini buoni, completi; a chi beve questi vini, non deve interessare la tecnica che usiamo; conta solo quello che sente nel bicchiere.
Se dovessi dire cosa ha di speciale il Barolo, direi la sua unicità. Quando lo bevi, senti delle cose…(agita le mani, in cerca della parola giusta)…particolari. È un vino che ti invoglia a bere, al contrario di molti. Io ho assaggiato tanti vini, in quarant’anni, e ti posso assicurare che i vini ottenuti da Nebbiolo, che siano Barolo o Barbaresco, sono fatti per essere bevuti. Il vero esame di un vino è a tavola; quando apri una bottiglia di Barolo, stai sicuro che la finisci. Con tanti altri vini, stai lì a girare il bicchiere, giri e rigiri, ma il vino non va mai giù, la bottiglia rimane a metà. Un vino deve avere struttura ed eleganza ma, soprattutto, deve essere bevuto.
Con Claudio lavoriamo insieme da più di trent’anni, con una buona divisione dei compiti. Lui in vigna, io in cantina, Ma ciascuno di noi conosce il lavoro dell’altro; io vado ogni tanto a dare un occhio alle vigne, e lui assaggia i vini con me. Da qualche anno, a darmi una mano ci sono i miei figli, Fabio ed Elisa. E Alda, mia moglie, lavora all’amministrazione, e ci comanda tutti!”
Intanto è arrivato Claudio, ha già in mano le chiavi dell’auto, scalpita per portarmi giù alla Ginestra. Ci fermiamo nella parte alta delle vigne, i grappoli sono ancora su, manca poco alla vendemmia. Ne raccoglie un paio, per mostrarmi le differenze tra due cloni di Lampia. « Le sotto-varietà del Nebbiolo sono Lampia, Michet e Rosé. Ma il Rosè non viene mai usato, e il Michet, per quanto se ne favoleggi, praticamente non esiste. In genere, vengono chiamati Michet dei Lampia virosati. In questo vigneto è stato piantato un clone del Lampia, il 111.
Oggi non viene più utilizzato, ha grappoli grandi, mentre oggi si preferisce averli più piccoli, serrati, capaci di dare un vino più strutturato. Però, sarà anche vecchio, ma al vino conferisce profumi di rosa e fragola come pochi altri. Per cui, quello che conta è la selezione che fa il produttore. La scelta massale è sempre molto importante, si cerca di spingere determinati caratteri della pianta piuttosto che altri. Nel mio vigneto non pianterò mai un clone unico; il cinquanta per cento deve venire dalla selezione, dalle piante che io decido di propagare. Poi, nel restante cinquanta, si possono inserire i cloni del vivaio, ma non è detto che si avranno risultati migliori. Con la scelta massale, sono sicuro di quello che faccio, so con certezza che quella specifica pianta, su quel terreno specifico, mi ha dato quel risultato lì. E su quello ragiono.
Si cerca il minor impatto ambientale possibile nelle coltivazioni. Siamo certificati biologici da qualche anno, ma è dal 96 che cerchiamo di curare nei minimi particolari i nostri interventi in vigna, per migliorare ciò che la terra può dare all’uva. E siamo biologici soprattutto perché in queste vigne ci viviamo noi, e vogliamo lavorare tranquilli. Il dovere di un viticultore è di prendere un terreno, tenerlo per quaranta, cinquanta anni, e lasciarlo a chi arriva integro, uguale a come l’ha trovato. Al limite, migliorato È una cosa molto difficile, perché c’è sempre perdita di materia organica, e ci sono i cambi climatici, difficili da gestire. Il viticultore attento deve capire cosa gli dà la natura, e manometterla il meno possibile. Penso che una zona famosa come il Barolo dovrebbe avere l’enorme coraggio di inserire nel suo disciplinare il divieto di utilizzare certi prodotti. Sarebbe il primo disciplinare al mondo a fare una scelta così rigida, ma la nostra è una zona che va tutelata, anche con scelte estreme; è molto difficile da lavorare, ha delle pendenze dove l’uomo è costretto a impegnarsi molto di più che in pianura, con costi più alti, e non sarà certo la chimica a preservare queste terre, sarà la lungimiranza dei produttori.
I nostri terreni hanno marne, tufi e profondità eccezionali. E poche zone al mondo possono vantare un connubio così felice come quello dell’uva Nebbiolo con questi suoli. Il vitigno Nebbiolo ha un ciclo vegetativo molto lungo, germoglia presto, in alcuni anni già a inizio marzo, e finisce tardi, a ottobre la pianta ancora lavora. Se lo confronti a uno Chardonnay, un Merlot o un Pinot Nero, è un ciclo lunghissimo.
È un’uva che non mangi con piacere; mentre Dolcetto e Barbera puoi usarle anche come frutta, il Nebbiolo no. Troppo acida, troppo tannica. È un’uva esclusivamente da vino, e abbinata a questi terreni, fa delle cose incredibili. Si possono ottenere longevità, profumi e profondità che pochi vini al mondo hanno. Una grande caratteristica del Nebbiolo è di non dare mai un vino amaro; potrà essere più o meno acido, più o meno tannico, ma il Nebbiolo, anche ossidato, avrà sempre una profondità dolce. È questa rotondità, negli anni, a darci tanto piacere a tavola!
Nascere a Monforte, Barolo o La Morra è una fortuna, perché se nasci a dieci chilometri da qui sei a Monchiero. E a Monchiero, per quanto tu sia bravo, certo non potrai fare Barolo. Questa zona ha avuto dei grandissimi uomini del vino, che l’hanno solcata con il loro lavoro; penso a figure come Beppe Colla, o Bruno Giacosa. E a quel gruppo di giovani vignaioli, che fecero una rivoluzione, negli anni ’80, lavorando tutti con la stessa filosofia produttiva per rinnovare il sistema.
Qualcuno ha creduto che fosse una forma di concorrenza estrema, ma in realtà è stato un periodo dove la fame di conoscenza era incolmabile, così come la volontà di portare il Barolo in giro per il mondo. Tutti volevano fare, provare, andare. Se penso ai personaggi di quegli anni: Voerzio, Sandrone, Elio Altare, Elio Grasso, Domenico Clerico…uno come Domenico è un personaggio unico! Ha una tale passione che riesce a spiegare il vino anche ai giapponesi, senza nemmeno sapere l’inglese, e la stessa passione la ritrovo in Elio Grasso ed Elio Altare. Sono stati il naturale proseguimento dei grandi che li hanno preceduti, e hanno saputo dare una sferzata d’orgoglio al nostro ambiente. Nel contempo, in quegli anni è avvenuta una delle cose più belle che possa avvenire in una zona di produzione: i viticultori hanno deciso di smettere di vendere la loro uva, e di trasformarla personalmente. Prima portavi l’uva al mercato di Alba, o aspettavi la visita dei compratori. Questi ti tenevano sempre in soggezione, facevano loro le regole; eri preso per il collo, la vendita andava fatta in cinque–sei giorni altrimenti l’uva marciva. E bisognava comunque raccoglierla, e spesso non si avevano gli spazi per il ricovero, e allora trovare un accordo con un commerciante era fondamentale. Quella degli anni ’80 è stata una generazione di fenomeni; nessuna zona al mondo ha avuto un gruppo di tale valore, così coeso, da rivoluzionare un territorio.
Al di là delle polemiche, il produttore intelligente è colui che è capace di raccogliere il massimo che dà l’annata. Poi, quando bevo un vino, l’ultima cosa che m’interessa è sapere come viene fatto. Al massimo, m’informo dopo. Conoscere il tipo di legno utilizzato, o sapere come è stata pigiata l’uva, mi importa assai poco. Io assaggio, e se mi piace, m’informo, cerco di conoscere il produttore, e le motivazioni delle sue scelte tecniche. Se non mi piace, finisce lì, difficilmente lo riberrò, ci sono tanti vini al mondo. Non mi interessa sapere che Beppe Rinaldi mette il vino nella la sua tina aperta di cento anni, mi interessano i suoi grandi risultati. È sempre l’uomo che fa la differenza».
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