«Sono un perfezionista, fare vino è una lotta contro gli errori. Non è un prodotto qualsiasi, se sbagli non puoi rimediare, devi aspettare un anno. Allora bisogna eliminare gli errori in anticipo, pianificando ciò che è realizzabile, accettando quel tanto di rischio necessario per fare grandi cose».
C’è tutto Werner Morandell, tenuta Lieselehof a Caldaro, in queste frasi; un uomo pratico, bravo nel suo lavoro, sempre alla ricerca del meglio. E fortunato, con una bella famiglia che collabora ai suoi progetti. La moglie Claire gestisce i visitatori e gli appartamenti che accolgono i turisti, e si occupa del Museo delle Viti, una collezione di 360 piante diverse, provenienti da tutto il mondo.
Due figli, Julian e Maximilian. Il primo segue marketing e vendite, girando l’Italia e un po’ di estero, e nei ritagli di tempo lavora per i canali social. Il secondo studia a Londra Scienze Politiche, ed entrerà in azienda nel 2020.
La famiglia Morandell è da sempre nel mondo del vino; la tenuta prende il nome dalla bisnonna Liesele, il padre Gottlieb-Amadeus era un abile innestatore. Ma sentiamo Werner: «La viticoltura ha cambiato volto, qui a Caldaro. Dalla schiava e il pinot bianco per le domeniche siamo passati a piantare cabernet, merlot, chardonnay, sauvignon. Poi abbiamo cominciato a pensare a come si sarebbe potuto lavorare meglio con la natura; nel ’93 abbiamo smesso di usare diserbanti e dimezzato i trattamenti in vigna. Siamo arrivati ad avere una parte dei vigneti in certificazione biodinamica, l’altra biologica.
Questa situazione però comportava comunque alcuni trattamenti, per cui ho cominciato una ricerca su vitigni resistenti alle malattie fungine, quelli detti PIWI. Nel 2001 ho fatto i primi esperimenti con il Solaris, provando cento innesti, nel 2003 abbiamo piantato mezzo ettaro con Bronner e Johanniter; da allora abbiamo preso con decisione questa strada, sostituendo gradualmente le nostre viti con quelle resistenti».
Werner è uno che fa le cose per bene, e tanto studio ha dedicato a questi vitigni da scriverci un libro, “Vitigni resitenti”.
«Oggi produciamo undici etichette – cinque bianchi, due rossi, diversi passiti e uno spumante fatto col Metodo Ancestrale. Dopo alcuni viaggi nello Champagne ho capito che qui in Alto Adige avremmo dovuto fare qualcosa di diverso. Il Metodo Classico mi andava stretto, si trattava di vendemmiare il pinot nero ancora immaturo, non mi andava. Ho quindi scelto il souvignier gris, che ha due peculiarità: è molto resistente alle malattie, in otto anni non ho mai fatto trattamenti. E la bacca matura mantiene la sua acidità, per cui posso lavorarlo col Metodo Ancestrale. È un’antica pratica francese, le uve venivano raffreddate con blocchi di ghiaccio che arrivavano nello Champagne dal Monte Bianco, con carri trainati da buoi. Il freddo bloccava la fermentazione, che ripartiva poi in bottiglia, usando gli zuccheri del vino e non quelli aggiunti, che sono privi di aromi. L’Ancestrale fu messo da parte con la Grande Guerra, quando si fermarono i trasporti del ghiaccio. Per farlo, ho apportato delle modifiche ai tini, creando le condizioni per il raffreddamento.
Vado molto orgoglioso del Quintessenz; è un passito (bronner 100%) molto difficile da realizzare, per il tipo più pregiato può capitare di non riuscire a produrlo anche per dieci anni. Gli do il nome Quintessenz solo quando lo zucchero residuo supera i 300 grammi; non è semplice, devi avere determinate condizioni climatiche dall’estate fino a fine marzo, e poi devi riuscire a far fermentare un nettare di 50 gradi Babo, ed è un’impresa ardua. Alla fine, la resa è solo del 9% dell’uva. Con questo vino ho già vinto due volte il premio come miglior passito del mondo, su 600 partecipanti. Vincere lì è dura, basta niente e ti ritrovi al decimo posto». Mentre racconta, Werner sprizza sicurezza e orgoglio, ma ha sempre toni pacati.
«Sono felice tutte le mattine che mi alzo e vedo il sole sopra le mie vigne, quando esco con i ragazzi in campagna, o quando passo del tempo in cantina. È un lavoro incredibile, parti in inverno con le piante da potare, e finisci con l’avere un prodotto finito, in bottiglia. Un ciclo a 360 gradi che dà soddisfazioni incredibili. Se avessi una seconda vita, non vorrei mai vivere in un posto dove non crescono delle viti!»
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