
Questi lavoratori italiani guadagnano 1.000 euro al giorno, ma dietro c’è un problema che pochi vedono - winestories.it
Sempre più ospedali italiani si affidano ai turnisti esterni per coprire le emergenze. Retribuzioni altissime e carenze strutturali alla base di un modello che rischia di non reggere.
Guadagnare 1.000 euro al giorno per un turno di 12 ore al pronto soccorso non è un’ipotesi astratta, ma una realtà che riguarda centinaia di medici in tutta Italia. Parliamo dei cosiddetti “gettonisti”, professionisti che operano da esterni, spesso tramite cooperative o come liberi professionisti, per colmare i vuoti lasciati dalla cronica carenza di personale sanitario. Un fenomeno sempre più diffuso, tanto da diventare prassi in molti ospedali pubblici, dove l’organico interno non riesce più a garantire la copertura dei reparti d’urgenza.
Questo tipo di incarico temporaneo garantisce una paga netta intorno agli 80 euro l’ora, che può salire a 100 euro lordi se gestito tramite cooperative. Una remunerazione che supera in pochi giorni quella di un primario assunto a tempo pieno, che mediamente guadagna tra i 4.000 e i 5.000 euro netti al mese. Il confronto non regge: sei turni da “gettonista” bastano per superare un intero mese di stipendio del collega strutturato. E la disparità si fa ancora più evidente considerando che, a fronte di questi compensi, non esiste un contratto stabile, ma si lavora a chiamata, su richiesta delle aziende sanitarie.
I numeri che raccontano una distorsione strutturale
Questi medici non sono improvvisati. Hanno esperienza, specializzazioni, spesso anche studi privati. Alcuni sono ricercatori che cercano di integrare il proprio reddito, altri professionisti affermati che mantengono comunque un impegno nel pubblico, anche se in forma flessibile. Molti raccontano che non è solo una questione di soldi: il desiderio di aiutare, la vocazione per la medicina d’urgenza, e in alcuni casi l’assenza di alternative compatibili con la propria carriera accademica li portano a scegliere questa strada.
Eppure, il modello presenta criticità evidenti. In primo luogo, genera una frattura interna tra personale assunto e esterni. Il medico dipendente affronta turni fissi, carichi amministrativi, obblighi burocratici, senza ricevere un adeguato riconoscimento economico. L’esterno, invece, guadagna di più, senza vincoli di continuità, ma spesso senza assicurazioni adeguate, con costi a proprio carico e una fiscalità pesante. In pratica, il costo effettivo per le casse pubbliche non cambia, ma il risultato è un sistema sempre più sbilanciato e dipendente da interventi spot.

Il fenomeno ha preso piede soprattutto negli ultimi tre anni, complice il calo di iscritti alle scuole di specializzazione, la fuga di molti giovani medici all’estero e il mancato turnover dei professionisti in uscita. Le Regioni, a corto di soluzioni, hanno preferito affidarsi a cooperative o bandi temporanei per coprire i turni. Il risultato è un’impennata dei costi, senza una vera pianificazione di lungo periodo.
La sanità pubblica affida le urgenze a chi costa di più
Il paradosso è evidente: per far funzionare un servizio essenziale come il pronto soccorso, si paga di più proprio chi è meno stabile. Le aziende sanitarie, pur di garantire le urgenze, accettano di versare fino a 1.000 euro a turno, pur sapendo che si tratta di una soluzione emergenziale. E che questo costo, sommato su base mensile e annuale, supera ampiamente quello di una normale assunzione.
Dietro il compenso alto, ci sono anche assenze strutturali: mancano incentivi per le specializzazioni più faticose, mancano tutele per chi lavora in contesti ad alto stress, mancano percorsi chiari di progressione professionale. Così, molti scelgono di uscire dal sistema, per rientrarci solo quando serve, da esterni ben pagati. E le strutture pubbliche, pur di evitare chiusure o scoperture, accettano le condizioni.
Il tema è nazionale. Riguarda la tenuta del sistema sanitario, la gestione delle risorse umane e la credibilità del servizio pubblico. Perché se diventa normale pagare il doppio chi lavora meno e con meno vincoli, l’intero impianto rischia di crollare. E non per mancanza di personale, ma per scelte disallineate con il fabbisogno reale.
Intanto, i “gettonisti” restano indispensabili. E ogni giorno, in ogni turno, costano quanto un’intera settimana di lavoro di un medico assunto. Una scelta obbligata, che però nessuno ha ancora il coraggio di affrontare alla radice.