Patrick Uccelli ha uno sguardo schietto e ridente, e un animo aperto alle possibilità della vita. È un agricoltore che non vuole restare confinato nella specificità del suo mestiere. Per lui, più colture significano più cultura. Elabora pensieri interessanti sul nostro rapporto con la natura, col cibo, e non si limita ad enunciarli, ma con la moglie Karoline prova a metterli in pratica nella sua azienda a Salorno, la Tenuta Dornach.
«Non nasco in vigna, sono cittadino, nato e cresciuto a Bolzano. Ho due lauree in viticoltura ed enologia, ma prima ho studiato medicina, storia e filosofia; sono corsi che non ho terminato, ma fanno parte della ricerca su me stesso che alla fine mi ha condotto qui, mi ha riportato alla terra.
Siamo nel comune più a sud dell’Alto Adige, su una collina esposta a ovest, sulla parte sinistra dell’Adige. Lavoro sette ettari di vigne, con le varietà classiche della zona; Pinot nero nella parte alta dell’azienda, al centro Pinot bianco e Incrocio Manzoni, più alcune varietà resistenti, e nella parte inferiore Gewürztraminer. La conduzione è in regime biodinamico, e la difesa viene fatta con rame e zolfo.
Non c’è nulla di eclatante nel mio modo di fare il vino, è quasi noioso. Sono stato istruito ad avere un approccio molto tecnico, dove si interviene prima che si manifestino i problemi. Oggi lavoro in maniera opposta; osservo, assaggio tanto, cerco di capire se ci sono problemi. In cantina bisogna saper aspettare, riuscire a tenere sotto controllo le proprie paure. A volte, come nella vita, certi problemi si risolvono da soli. Non serve fare l’università per capire le regole di base per fare il vino; io intervengo il meno possibile, tengo le botti sempre colme per evitare ossidazioni. I ragazzi che vengono per il tirocinio restano delusi, tutto qui?
Come agricoltore, avere la terra e non riuscire a procurarmi da mangiare non mi rendeva particolarmente orgoglioso, mi sembrava una sconfitta avere una monocoltura, essere costretto ad acquistare prodotti di cui non conoscevo l’origine. Oggi riesco a produrmi gli ortaggi, il mais, le patate, la carne, il foraggio per gli animali. Alla monocoltura corrisponde anche un inaridimento dello spirito, con più colture lo spirito si espande, e fondamentalmente la vita è più divertente».
Arrivano due clienti, devono acquistare vino per una festa, ma vogliono prima assaggiare. Ci spostiamo in giardino, sotto una pergola di vite. C’è un tavolo di legno grezzo, con su diverse bottiglie con le nuove etichette di Patrick. Nessun nome, ma numeri: uno, due, tre quattro, con diversi colori. «D’ora in poi i vini avranno una progressione di numeri, quest’anno imbottiglio fino all’ otto, dall’anno prossimo ricomincio dal nove. È un discorso di identità del prodotto agricolo, che è irripetibile, legato indissolubilmente all’annata».
Intano Patrick apre una bottiglia, la numero quattro (Regent, Prior e Merlot). «Questo è il mio vino del cuore, il più vicino a quello che la nostra famiglia fa, agricoltura. È il più rurale, il più vinoso, quello con gli scarponi grossi. Buono per una grigliata sotto una pergola, con la chitarra, su una tavola dove si discute, si canta, dove ci si incontra.
È un vino con un elevato tasso di socialità. Perché il vino deve farti stare bene, è quello il suo compito. Noi in famiglia non parliamo mai di vino, non lo prendiamo così sul serio. E lo stesso è con gli altri produttori; cerchiamo di avere del buon cibo, di accompagnarlo con un vino buono, e di spendere del buon tempo. Ma parliamo d’altro, di trattori e motoseghe. Alla fine, è solo un bicchiere di vino».
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