Umani Ronchi, ad Osimo, in cantina con Michele Bernetti.
«Mio padre sull’inglese era un autodidatta, ma non si lasciava scoraggiare, se la cavava inventando le parole, “please, give me the cavatapp”. In fiera dava spettacolo, ma ha sempre avuto la capacità d’arrangiarsi, e di andare avanti. Le difficoltà di confrontarsi con un mondo distante dal nostro non lo scoraggiavano. Partiva per New York, con la valigia carica di bottiglie, senza sapere la lingua, a presentare un prodotto sconosciuto. Il nostro distributore newyorkese stava nel Bronx, i taxi neanche volevano andarci, bisognava trovare qualcuno che ti ci portasse. E con i rischi del caso, non si era poi sicuri che questi clienti avrebbero pagato.
Oggi queste difficolta non ci sono più, internet ti consente di accedere alle informazioni, puoi capire la credibilità dei clienti. Però è aumentata la concorrenza, occorre avere grandi risorse da investire, e se una volta in valigia ci mettevi il vino, oggi ci devi mettere il piano commerciale. È tutto meno romantico, e a un altro livello di difficoltà. Una volta il confronto era con persone che provenivano dalla nostra cultura, in genere erano italo-americani, discendenti di emigranti. Non è più così, tratti con gente che ha bevuto i vini di produttori tutto il mondo, e con questi ti devi confrontare, la pressione è molto più forte. Tutti i tempi si sono fortemente ridotti, i confini si sono annullati, e questo ci ha aperto nuovi mercati. Non si vende più sotto casa, si guarda al mondo intero».
Duecentottanta ettari di vigneti, per più di due milioni di bottiglie, ma Michele le ci tiene a precisare l’artigianalità del suo lavoro: « Ancora ci sono fraintendimenti tra aziende grandi e piccole, dimenticando che, se fai 15.000 bottiglie di un vino, 18.000 di un altro e così via, di fatto lavori in maniera artigianale, sia in vigna che in cantina, come un piccolo produttore.
video: Mauro Fermariello montaggio: Mauro Di Schiavi
di più: www.umanironchi.com
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