Conosco Armin Kobler da anni, per alcuni incontri nelle fiere del vino e per le comuni frequentazioni sui social. Ho sempre ammirato il suo equilibrio; veste elegante, ma con sobrietà, partecipa alle discussioni sui social con puntiglio, ma senza mai trascendere. Così non mi stupisco quando mi accoglie nella sala di degustazione del Weinhof Kobler: tutta bianca, tavolo bianco, sedie bianche, l’attenzione rivolta solo alla bottiglia in esame. Un’esperienza zen.
E davanti alla bottiglia e due bicchieri, Armin inizia a raccontare: «Siamo a Magrè, nella parte meridionale dell’Alto Adige, la Bassa Atesina; al confine col Trentino, proprio a metà strada tra Trento e Bolzano. Qui la viticoltura è localizzata nel fondovalle e sulle colline. Il fondovalle è caratterizzato da terreni alluvionali, tutti diversi tra loro. Nel corso dei secoli si è depositato materiale proveniente da valli diverse. Questo ha creato terreni eterogenei, molto interessanti per la viticoltura. Ai lati della Valle dell’Adige ci sono poi i conoidi di deiezione, con terreni calcareo-dolomitici, e le colline, molto eterogenee sia dal punto di vista pedologico che climatico. Questa presenza di terreni e microclimi diversi offre la possibilità di allevare molti tipi di vitigni, e se si sceglie la giusta varietà c’è la possibilità di fare ottimi vini.
I miei vitigni rispettano la realtà ampelografica di Magrè degli ultimi centocinquanta anni: Chardonnay, Pinot grigio e Gewürztraminer i bianchi, Cabernet franc e Merlot i rossi. Non abbiamo Pinot nero e Lagrein, in genere considerati tipici per tutto l’Alto Adige, ma non abbiamo i terreni adatti, e allora non ci proviamo nemmeno». Si chiama senso del limite, e Armin ce l’ha.
«Con me lavora mia moglie Monika, abbiamo poco più di cinque ettari, e produciamo circa 15.000 bottiglie l’anno. Ho sempre prodotto uve, conferendole alla cantina sociale, intanto facevo il ricercatore enologico e il consulente; a un certo punto non mi è bastato più far vedere agli altri come si fa il vino, ho sentito la necessità di mettermi alla prova vinificando le nostre uve, commercializzando le nostre bottiglie e incontrando chi alla fine beve questi vini. È importante conoscere i consumatori, le persone che speri di soddisfare col tuo prodotto.
In Alto Adige facciamo vini di montagna. Non è necessario stare in alto, io ad esempio mi muovo tra i 200 e i 220 metri d’altitudine, che è una quota molto bassa, la minima in Alto Adige, però ugualmente le mie vigne sono influenzate dalle montagne, dalle masse d’aria fredda che la notte scendono nella valle. Tutti i nostri vini vengono da singoli vigneti, e da questi prendono il nome. Il Cabernet franc Puit è coltivato sul conoide del Rio Favogna, terreno calcareo di base dolomitica; è un vigneto in leggera pendenza, con escursione termica lieve, per cui le uve continuano a maturare anche di notte. Lo vendemmiamo tardi, perché solo una piena maturazione dell’uva, e rese modeste, danno un Cabernet franc che non sia erbaceo.
Dopo la svinatura c’è un passaggio in barrique molto usate, che hanno ormai vent’anni. Solo per garantire quel po’ di microssigenazione per ammorbidire i tannini. Lo Chardonnay Ogeaner viene da un vigneto storico dell’azienda, fu il primo ad essere acquistato da mio padre negli anni ’50, e già allora le viti avevano una certa età, oggi avranno più di ottant’anni; è una vecchia pergola, abbastanza bassa, perché più bassi erano i contadini, e continua a darci delle belle soddisfazioni.
Indipendentemente dall’andamento dell’annata, i vini si mantengono coerenti fra loro. L’escursione termica conserva molto bene gli aromi, l’acidità e il frutto, e il vino che ne deriva ha sempre una certa freschezza. Lo facciamo, come tutti i bianchi e i rosati, solo in acciaio, per trasferire il più possibile nel bicchiere il territorio, il vitigno e l’annata. Voglio evitare aromi che provengano da materiali che non sono dell’uva. È solo una scelta aziendale, non voglio dire che sia giusta o sbagliata». Sempre misurato, il nostro Armin.
Lascia un commento