Aldo Cifola è un signore gentile, con l’aria sicura di chi sa il fatto suo, e dà l’impressione, quando parla, di aver meditato a lungo sui concetti che esprime. Per l’intervista saliamo verso i vigneti, dove si trova anche la grande cantina. Ci sediamo tra le botti, indorate dalla luce pomeridiana.
“Quest’azienda nasce nel 1966, da un progetto di mio papà Casimiro. Lui faceva tutt’altro, ma aveva una forte esperienza di vita contadina, e per anni aveva cercato un posto tutto suo, dove dare sfogo alla sua passione. Quando vide questa collina, se ne innamorò subito, anche se non ci fosse nulla di già coltivato. Decise di acquistare una parte dell’attuale azienda, e di piantare vigne. Le diede il nome della contrada, La Monacesca, che deriva da un insediamento di monaci benedettini in fuga dai Longobardi, avvenuto poco prima dell’anno Mille.
Mio papà mi ha insegnato tanto. Soprattutto, la capacità di saper aspettare. Mi ha fatto capire che questo è un mondo dove non esistono scorciatoie, le strade vanno percorse per intero, e non occorre aver fretta. Bisogna avere le idee chiare, un vino è sempre figlio di un progetto,
e la consapevolezza che i tempi saranno necessariamente lunghi. E la passione aiuta la pazienza. Quale altro imprenditore avvia un progetto che comincerà a rendere dopo dieci anni, e che nel frattempo sarà esposto a ogni tipo di rischio? Questa pazienza ha permesso a mio padre di portare avanti il suo progetto, che poi è diventato anche il mio: cercare di fare i vini che amiamo, che raccontano le nostre terre, senza mai dimenticare il concetto di piacevolezza. Fare autoctonia non deve significare lavorare solo per una stretta élite di eno-curiosi, ma raccontare il territorio attraverso una grande bottiglia, che piaccia a tutti e che possibilmente si vuoti velocemente.
La nostra condizione, qui a Matelica, è completamente diversa dal resto delle Marche, dove tutte le vallate beneficiano della mitigazione del clima da parte dell’Adriatico. La nostra valle, l’Alta valle dell’Esino, invece, è chiusa al mare, e presenta caratteri continentali che sparigliano la situazione. In più, questo catino nel paleolitico era un lago salato, e quindi si capisce quanto questo areale differisca da quello dei Castelli di Jesi. Sono state le condizioni climatiche e la differenza dei terreni a creare delle situazioni enologiche così differenti. Il Verdicchio di Matelica per me è un clone decisamente poco elastico, soggetto ai tempi della natura, e bisogna aspettarlo, e prenderlo assecondandone i tempi.
Noi abbiamo principalmente Verdicchio, che realizziamo in due versioni. Una regolare (il termine “base” mi sembra riduttivo), che è la nostra bottiglia di Verdicchio di Matelica La Monacesca, ed è quella prodotta maggiormente. E una versione Riserva, che si chiama Mirum, ed è quella più conosciuta tra gli appassionati dei grandi bianchi da invecchiamento. Poi c’è un rosso importante, il Camerte, che è un blend tra Sangiovese grosso e Merlot. Il blend Sangiovese-Merlot potrebbe far pensare a un Super Tuscan, ma non è così, il Sangiovese è presente da noi da più di quattrocento anni, mentre il Merlot è arrivato con Napoleone. Il rosso qui aveva una grande tradizione, era scomparso con la “fashion anfora” del Verdicchio, e noi abbiamo cercato di recuperarlo”.
video: Mauro Fermariello montaggio: Mauro Di Schiavi
di più: www.monacesca.it
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