in breve:
A volte capita che un lavoro non si riesca a chiudere in una giornata, e allora bisogna ripassare in azienda per completarlo. Il primo tentativo a La Salceta, in Valdarno, era stato in una giornata fredda e piovosa di fine marzo, dove ero riuscito a portare a termine l’intervista ad Ettore Ciancico, ma per le riprese esterne mi è toccato tornare (bel sacrificio, direte voi) in un caldissimo pomeriggio di luglio.
Al primo appuntamento, ad accogliermi arriva Bengio, un cagnone dall’aria assai poco rassicurante, e con un abbaiare che fa tremare il mio furgoncino. Ma è buonissimo, e dopo un minuto di studio siamo ottimi amici. Poi arriva Ettore, da poco sveglio, raffreddato e con una bella caffetteria fumante. Ettore ha avuto diverse vite, che lo hanno visto dapprima sindacalista, poi manager e infine vignaiolo. Ha buona cultura ed ottimo eloquio, e subito mi stupisce citando Leonardo, che alle spalle della Gioconda ha messo il ponte Buriano, a 3 km dall’azienda, e l’Arno, che attraversa la valle.
Prosegue poi, per sottolineare il pregio dei vini del Valdarno, con la Guerra dei Cent’anni e il bando di Cosimo III dei Medici del 1716. Capisco allora che sarà una mattinata impegnativa, e mi metto comodo ad ascoltare. Parliamo di tutto, di regole da rispettare, di Masaccio e Piero della Francesca, di vino e terroir, di sindacato, FIVI e del Consorzio di Tutela.
“Ho cominciato a fare vino come tutti in Toscana, piantando sangiovese. Erano gli anni in cui andavano di moda i vini parkerizzati – dettati dal gusto del critico statunitense Robert Parker, che voleva vini molto strutturati, che facevano tanto legno – ed io, in maniera anche ideologica, ho deciso di fare esattamente il contrario”.
Ecco, Ettore ha un modo di ragionare che lo porta a vedere le diverse facce di un problema, probabilmente per le sue precedenti esperienze lavorative, e spesso sposa quella meno ovvia. “Ho deciso così di fare vini freschi, leggeri, come piacciono a me. E solo in acciaio, non voglio che ci sia altro che l’uva che arriva dalla vigna. Solo quella si deve sentire nella bottiglia. Ho preso questa strada e l’ho mantenuta.
L’azienda è piccola, sono solo tre ettari. Ma sono da solo, ed è molto complicato farla crescere. Sarà compito di mio figlio Giacomo, se vorrà, di dare uno sviluppo diverso a questa azienda. Mi rendo conto che la mia passione non nasce dalla vigna o dalla cantina, ma dai meccanismi di miglioramento; mi appassiona trovare la soluzione ai problemi, alle criticità, che siano in vigna, cantina o nel commerciale.
Ettore mi parla della sua attività di sindacalista, poi nel settore privato, e infine di uno stop per problemi di salute. Fu allora che decise di cambiare vita, “c’era una vecchia vigna di famiglia, e decisi di fare il vino. Prima vendevo le uve, ma erano pagate troppo poco. Comprai allora delle vecchie vasche di cemento, da cui ovviamente non usciva vino, ma un liquido rosso che non aveva la dignità di essere chiamato vino. Ma comunque era comprato ad un prezzo maggiore delle uve, ed allora capii che dovevo farlo seriamente, farlo diventare la mia attività principale. Non è stato semplice, ma adesso ho le mie soddisfazioni, prendo ottimi punteggi nelle guide e vendo bene i miei vini all’estero.
Usciamo a vedere le vigne, prima quella del Poggiolo, giusto dietro casa, poi con l’auto raggiungiamo quella del Ruschieto. Paesaggi bellissimi, ma una pioggia fredda e insistente ci convince a rifugiarci da Sapori e Dissapori, anche se è tardi e non sappiamo se troveremo ancora aperto. In effetti stavano per chiudere, ma Rita ed Elena, amiche di Ettore, apparecchiano per quattro, riempiono i piatti e si siedono a mangiare con noi. La giornata non poteva avere epilogo migliore.
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