Che ci faccio qui? E perché riesco a mettermi sempre in queste situazioni? Sono a casa di Beppe Rinaldi, vignaiolo in Barolo, e sto guardando un muro. O meglio, stavo guardando alcune stampe interessanti, quando Beppe, dal divano in cui è sprofondato, avvolto dalla nube azzurrina del suo toscanello, mi chiede sornione: ” Lo sa di chi è, quella?”
Non è facile avere a che fare con Beppe Rinaldi; può decidere che gli vai a genio, e fermarsi con te a lungo, così come anche gentilmente liquidarti con una battuta. Se ti chiamano “Citrico”, ci sarà bene un motivo. Avevo invano provato a intervistarlo per due anni di seguito, alla manifestazione di Vini Veri, a Cerea. Non c’ero riuscito, protetto com’era da un fitto capannello di amici con cui discuteva animatamente, e ogni volta era venuta in mio soccorso la figlia, Marta. Ed è a lei che telefono, perché interceda affinché il padre mi conceda un paio d’ore del suo tempo. È una telefonata strana, io chiedo, Carlotta traduce, e Beppe, nel sottofondo, che borbotta “ma cosa vuoi fare l’intervista, ancora a parlare di vino, che noia!”
Alla fine riesco ad ottenere un appuntamento, ed eccomi qui, a guardare la parete. Mi sento più giovane di quarant’anni, interrogato davanti a una cattedra, e so che dalla mia risposta dipenderà il prosieguo del mio lavoro, e sono pronto a inventare la prima scusa che mi passa per la testa, tipo “prof, il cane si è mangiato il quaderno”, quando mi rendo conto che qualcosa, in quell’incisione, mi è familiare. Le capuzzelle dei personaggi sono troppo caratteristiche, non può che essere lui. “George Grosz!”
Beppe mi guarda leggermente stupito, e da allora tutto è andato in discesa, ci siamo messi comodi, e mi ha parlato per ore. Della sua infanzia, di letteratura, della lotta partigiana, di motociclette e di gufi, sua grande passione. Ha un fare distratto che fa simpatia, così come la sua andatura un po’ sbilenca, ma quando mi guarda, con quegli occhi così blu, riesce ad avere tutta la mia attenzione.
“Delle zone viti-vinicole che conosco, credo che questa sia la più bella. La Borgogna è intatta, perfetta, l’uomo ha ferito meno, però è una zona più monotona. La nostra varietà di paesaggio è più affascinante, ma l’ansia di rapidi guadagni sta creando una situazione deleteria. In vent’anni siamo passati da sei a tredici milioni di bottiglie, mettendo nebbiolo dove i nostri vecchi lasciavano il prato, il pescheto, il noccioleto o il bosco. Spazzati! Violentemente, e arrogantemente. Il trionfo della monocultura esasperata è una grande perdita, non solo per il paesaggio, ma anche culturale. La diversità di coltura aumenta la cultura delle persone, ti fa diventare eclettico. E la monocultura provoca squilibri enormi, a partire dalle frane per arrivare alla fragilità biologica. Scompaiono gli insetti. Dovremmo approfittare del valore aggiunto che ci da il nostro vino per fare delle scelte etiche, e smetterla con gli insetticidi e i diserbanti. I nostri nonni, forse perché non avevano i mezzi, o forse semplicemente perché avevano più gusto di noi, certe ferite al territorio non le avrebbero mai fatte. Penso a certe cantine, a certi ristoranti, o ad alcuni insediamenti residenziali che sono delle vere violenze a queste colline. Sono proposte pretestuose, perché si pensa che l’immagine di una cantina sia legata alla sua parte strutturale, o all’architetto famoso che l’ha costruita. Manca l’armonia; i nostri padri, e i nostri nonni, avevano la mano gentile, costruivano adattandosi al profilo delle colline. Ora si vuole emergere, e si costruiscono castelli neo-gotici e cantine post-moderne. Manca il concetto di tutela, come in Borgogna. La colpa è nostra, perché non abbiamo maturato il senso del bene comune, come è il paesaggio. Quando costruirono un capannone sul fondo-valle, eravamo solo in quattro a protestare, con i cartelli in mano. Ed è triste pensare che la maggioranza dei cittadini la ritenesse un’operazione giusta.
Alla fine, c’è un eccesso di enfasi nel parlare del vino. Troppe parole, troppi aggettivi. In tempi di decadenza, si mitizzano cose che una volta erano considerate normali, di fruibilità quotidiana. Il Barolo è un grande vino, ma bisognerebbe volare un po’ più bassi. In fondo, è solo vino”.
Lascia un commento