in breve:
Casa Cecchin, a Montebello Vicentino. Ad accogliermi c’è Roberta Cecchin, con un sorriso timido e la sua inconfondibile criniera rossa. La casa riprende le linee di una vecchia corte, ed è posta sul crinale di una collina dai fianchi ricoperti di vigne.
Comincio le riprese inseguendo farfalline tra i cespugli di lavanda, ed è così che mi trova Renato Cecchin, padre di Roberta e fondatore dell’azienda. Visto che è un ingegnere tutto di un pezzo, mi guarda un po’ perplesso. Poi mi dice che ha poco tempo, e allora abbandono le farfalle e mi preparo ad intervistarlo. Renato è fiero dei propri studi, e ha un grande rispetto per tutto ciò che è scienza. Ed è con questa filosofia che si è approcciato alla produzione del vino. Mi mostra con orgoglio un sistema da lui inventato per accelerare il remuage dei suoi spumanti: dei grandi poliedri che ospitano decine di bottiglie, che vengono fatti ruotare all’interno della cantina. Davvero ingegnoso.
“Sono nato nel ’38, in una casa di campagna. Mio nonno, e poi mio padre, coltivavano viti. E io non potevo non vedere, e non poteva non piacermi il vino! Già allora avevamo due filari di durella, perché il vino durello migliorava gli altri vini, faceva venir buono il cabernet, il merlot, con la sua mineralità, dovuta ai sassi vulcanici della zona, le pietre nere che si trovano qui dappertutto.
Giravo per queste colline e assaggiavo un durello stile antico, un vino duro, fatto male, fatto da chi non sapeva nulla di scienza. Però c’era qualche contadino che non riusciva a rovinarlo del tutto, e così ho assaggiato qualche vino buono. È stata una folgorazione, e decisi di concentrarmi su questo vino. Già nel 1970 provammo a spumantizzarlo con il metodo Charmat, e il risultato fu una rivelazione. Eravamo in cinque, due vicentini e tre veronesi. Intuimmo di avere un tesoro tra le mani, e decidemmo di perimetrare questa zona in comune, questo è un vino che ha unito due province solite a litigare. Nel Consorzio siamo partiti in sei, adesso siamo in trentacinque.
Ho fatto il corso da sommelier, e lì ho avuto modo di innamorarmi dello champagne, intuendone la somiglianza con il durello. Sono stato il primo a capire che qui si poteva fare un Metodo Classico, e nell’89 è uscita la prima bottiglia di Nostrum”.
Gli chiedo di Roberta, e lui riconosce l’importanza della figlia nella vita dell’azienda: “Roberta è stata la fortuna dell’azienda perché, non avendo figli maschi, non sapevo come tramandare il mio modo di fare vino. Per fortuna anche lei si è innamorata di questo vino, al punto tale da espiantare la garganega e piantare solo durella. E allora la nostra cantina ora è specializzata, e il durello di Cecchin è diventato il simbolo del durello!”
Intanto sono arrivati i ragazzi di Roberta, Sara e Pietro, per preparare i cartoni per la vendita, ed io ne approfitto per qualche foto. Improvvisano anche un ottimo spaghetto, che accompagniamo con un Pietralava freschissimo. Passiamo quindi all’intervista di Roberta, che ne avrebbe fatto volentieri a meno. E invece è brava, ha un tono sincero e non da marketing, e ascoltandola si capisce quanto ha a cuore il suo lavoro.
“Mio padre fece una scelta coraggiosa, allora la durella era un’uva sconosciuta, non la si sapeva vinificare, anche perché la si trovava da contadini che non possedevano le strutture adatte. Era un vino fatto in famiglia, molto rude, acido e con una forte componente tannica. Lui capì gli errori che venivano fatti in vinificazione, e si pose l’obiettivo di produrre un vino fatto bene. Si consultò con l’enologo, acquistò una pressa, studiò da sommelier.
Le prime bottiglie, poche, uscirono nel 1978. Era un vino bianco fermo, da tavola, molto aspro, non semplice da far apprezzare. Richiedeva dei cibi un po’ grassi, lui cercava di farlo conoscere ai ristoranti della zona che facevano baccalà alla vicentina. Lo spumante era una sua vecchia idea, partì nell’88 costruendo un’altra cantina sotterranea, per metterci le bottiglie, e nell’89 cominciò l’avventura del Metodo Classico.
Quando sono entrata in cantina ho capito che le potenzialità di queste uve erano notevoli. I vini con queste acidità 20-30 anni fa spaventavano la clientela, oggi invece vanno molto bene, c’è interesse. Adesso l’acidità è una nota positiva, piacevole, che dà beva.
Nel tempo ci siamo specializzati, spiantando la garganega e puntando tutto sulla durella, oggi siamo arrivati a cinque ettari in produzione. Produciamo ancora un vino fermo, il Pietralava, e dal 2002 anche un vino da uve passite, il Montebello, e ultimo arrivato è il Mandégolo, un frizzante sui lieviti. Ma quello che va per la maggiore è sempre il Metodo Classico, il Nostrum.
Mi piace l’idea di fare un vino unico, particolare. Mi piace sperimentare per poter tirare fuori tutte le particolarità di questa uva, e mi piace il lavoro che c’è da fare per farlo conoscere in giro. Poi mi piace che ogni anno il vino è diverso, è bello parlarne con i clienti confrontando le varie annate, far capire che il nostro è un vino fatto in piccole quantità, che rispecchia tantissimo l’annata, visto che noi non abbiamo l’esigenza di creare dei vini tutti uguali, e questa è una grande cosa.
Come donna è stata durissima, ho dovuto conquistare il rispetto di mio padre, il quale pensava che, non avendo avuto figli maschi, l’azienda sarebbe finita con lui. All’inizio mi affidava solo lavori di pulizia, e continuava a dirmi che, come donna, il mio compito era di pulire le vasche e tenere in ordine la cantina. Poi, seguendo il corso di sommelier, ho conosciuto un mondo affascinante, col rimpianto di non averlo scoperto prima, e ho capito cosa fare. È stato difficile, ma gli ho dimostrato di saper gestire l’azienda come lui, di “saper vendere il vino e portare a casa i soldi”, che, come mi diceva sempre, è il lavoro più difficile”.
Vado via ammirato, con Roberta ho incontrato una vignaiola timida e gentile, ma brava e determinata come poche altre. E mi sa che anche Renato finalmente lo sa!
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