Uno dei principali motivi per cui invidio i ragazzi (a parte l’elasticità delle articolazioni) è per il fatto che non hanno ancora letto certi libri fondamentali o visto certi film imperdibili. Insomma, per dirla col poeta, invidio “l’aver tutto per possibilità”. Ma nel mondo nel vino io sono ancora un ragazzino imberbe, ingenuo come Biancaneve, e ho ancora migliaia di nuove gioie da provare. E così, una sera a casa di amici napoletani mi capita che mi parlino dell’azienda Galardi e del loro rosso, il “Terra di Lavoro”. “Non è possibile che tu non li conosca, sono amici e fanno un vino pazzesco, devi andarci subito!” Detto fatto, Stefano tira su il telefono e mi prende un appuntamento per il mattino dopo.
E così, in un mattino nebbioso, mi ritrovo a salire per le colline della frazione San Carlo di Sessa Aurunca, accompagnato da mio figlio Luca. Ad attenderci troviamo tutti i componenti dell’azienda Galardi, tutti cugini tra di loro: Maria Luisa Murena, Dora e Arturo Celentano, Francesco Catello. Come apprenderò durante l’intervista, sono loro che nel 1991, con un audace colpo di follia, decisero di aprire la loro azienda agricola (castagne ed olio) alla produzione del vino. Del nucleo originario manca solo il compianto Roberto Selvaggi, marito di Maria Luisa.
A turno, mi raccontano la storia dell’azienda, e nelle loro parole ritrovo quelle intonazioni e quell’ironia che tanto mi mancano. Mi dicono divertiti degli inizi incerti, “facevamo un vino terribile, non piaceva a nessuno, neanche a noi”. Dell’incontro con Riccardo Cotarella, che si innamora dell’idea e che comincia a seguirli nonostante si partisse da un fondo di solo un mezzo ettaro. Della prima vendita importante, tutta la produzione del ’94 e del ’95 (ancorché limitata) in un colpo solo, senza neanche discutere il prezzo.
Passo così un paio d’ore piacevolissime, saltando da un interlocutore a un altro, prima in un elegante salotto, per passare dopo in cantina e poi nelle vigne.
I vigneti dell’azienda Galardi sono sul vulcano di Roccamonfina, dieci ettari di cui l’ 80% è aglianico e il 20% è piedirosso. Potatura invernale, potatura verde e selezione dei grappoli mirano a tenere molto bassa la produzione di uva (trentamila le bottiglie prodotte). Un solo vino, il Terre di Lavoro, fatto appunto con uve di aglianico e piedirosso. Arturo mi racconta che l’utilizzo del piedirosso era un “trucco” per ammorbidire le asperità dell’aglianico, mentre oggi, visto il successo ottenuto, quel taglio è ricercato volutamente per ottenere il Terra di Lavoro.
E, per spiegare quanto sia importante questo vino in questa famiglia, Maria Luisa dice: “Noi siamo, oggi, Terra di Lavoro!”
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