Arrivo nel cortile di Luigi Gregoletto, a Miane, proprio mentre sta uscendo di casa. È con un cliente, vestito con un camice nero di quelli che si usavano nelle vecchie drogherie, e porta un cappello di panno verde, da alpino. Fa freddo, in effetti.
Mi dà un saluto frettoloso, “oggi non sarebbe proprio giornata, con tutto quello che c’è da fare. E poi, non ho mica tanto da raccontare”. Scompare dentro un magazzino, per riemergere poco dopo con l’aria trionfante e sei/sette sopresse tenute per gli spaghi. Dopo aver fatto i conti con l’ospite, torna da me con l’espressione ancora più scettica. Lo convinco almeno a provare l’intervista, per poi eventualmente tornarci sopra successivamente. Mi porta al piano di sopra, nella sala degustazione. Prima di far le scale si carica di legna, e rifiuta qualsiasi aiuto. La legna sarà provvidenziale, la stanza è gelida e dopo pochi minuti comincio a credere che le mie orecchie stiano per staccarsi. Ma dura poco, il camino mi ridà calore. Cosa chiedere, a un signore di novant’anni? Da dove cominciare? Ricordi dell’infanzia, mi viene in mente. E lui subito mi gela, “sempre la stessa domanda!”
Ma comincia a raccontare, e va avanti senza interruzioni (una volta che gli chiedo qualcosa io, mi riprende subito: “non sia precipitoso, andiamo con ordine”).
A guardare le vite degli altri, soprattutto se ben vissute, tutto assume un senso compiuto, ogni scelta pare inevitabile. E invece a sentire il racconto di Gregoletto si capisce come la vita spesso sceglie per noi (l’improvvisa scomparsa del padre), o che alcune decisioni importanti sono prese quasi per caso (emigrare o meno in Germania, per un frase detta da un cugino).
Non so quanto siamo rimasti a parlare, in quella grande stanza fredda. Due o tre ore, credo. A farci tornare alla realtà è stata la figlia Antonella, che entra e prima ancora di presentarsi stappa una bottiglia e affetta una morbidissima sopressa. Ora che è tutto finito, Gregoletto mi pare subito più rilassato. Ancora due minuti di chiacchiere, e poi scappa via a pranzare, “ché dopo c’è ancora tanto lavoro da fare”.
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